La SEO ha ucciso la bellezza del Web

Il web è sempre più insozzato da contenuti di scarsa qualità e la colpa è di chi ha “ottimizzato” questi contenuti.


La mia non è una provocazione, ma una triste considerazione.

Navigo in Rete dal 1995. Ho ancora nelle orecchie il suono del modem che tenta di connettersi e le urla contro chi si azzardava ad alzare la cornetta del telefono, provocando la disconnessione.

Ricordo che il Web era il luogo delle utopie, dove si immaginava potesse concretizzarsi il concetto di intelligenza collettiva teorizzato da Pierre Lévy.

Invece, poi, è iniziata la competizione per accaparrarsi uno spazio nelle grazie degli utenti e la famigerata prima posizione su Google.

In un recente articolo pubblicato da Dmitri Brereton, che ha generato molte conversazioni su in Rete, ci si chiede

«quanti dei contenuti riportati nelle prime pagine dei risultati di ricerca forniscano oggi informazioni effettivamente utili e interessanti, e quanti invece – pur essendo il più delle volte pertinenti – siano il risultato più o meno evidente di un’omologazione determinata dalla competizione tra gli autori dei contenuti per dominare una determinata ricerca semantica ottenendo maggiore visibilità e, di conseguenza, maggiori ricavi».

Il problema era noto già ai fondatori di Google Larry Page e Sergey Brin (che definirono come “problematico” per i motori di ricerca il modello di business basati sulla pubblicità) sin dal 1998, anno in cui il popolare motore di ricerca vedeva la luce, e riguarda la lista dei risultati forniti (quella che chiamiamo SERP) e, di conseguenza, la qualità dell’offerta di contenuti selezionati da Google in risposta alle domande poste dagli utenti e, dunque, promossi (e percepiti) come risposte migliori di altre.

Capita ormai sovente che i contenuti proposti tendano a essere simili tra loro perché chi li ha redatti ha cercato di assecondare il più possibile raccomandazioni tecniche di compilazione e scrittura suggerite da Google o dal “guru” di turno, uguali per tutti, o ha tentato di replicare formati che già hanno avuto successo nelle ricerche.

Questo succede a discapito della cura verso altre possibili caratteristiche di qualità dei contenuti come l’originalità o – udite, udite! – la sincerità degli autori.

Come ha sintetizzato Brereton: «La maggior parte del web è diventata troppo inautentica per poter fare affidamento su di essa». Questa frase mi trova pienamente d’accordo.

La questione vi potrà sembrare di lana caprina, ma io ritengo che invece questo male abbia corroso profondamente le basi che avrebbero dovuto fare del Web un faro di libertà e di miglioramento della nostra civiltà.

Il PageRank, che avrebbe dovuto essere una garanzia per la qualità dei contenuti restituiti in SERP, si è invece ritorto contro i suoi stessi ideatori. Perché? Perché, come si dice, fatta la legge, trovato l’inganno.

Non si può negare, infatti, che uno dei fattori che nel tempo hanno contribuito a modificare profondamente i risultati delle ricerche su Google è il costante tentativo di adattamento degli autori dei contenuti all’algoritmo stesso e la crescita del settore dell’ottimizzazione per i motori di ricerca (Search Engine Optimization, SEO). Applicando una serie di raccomandazioni e indicazioni formali di compilazione dei contenuti, gli autori possono infatti incrementare le possibilità che ottengano maggiore visibilità nei risultati delle ricerche generando, in teoria, maggiori profitti.

C’è troppa gente in giro, professionisti del Web soprattutto, il cui unico obiettivo è quello di raggiungere la vetta delle pagine di ricerca di Google, senza badare alla qualità, ma cercando in ogni modo possibile di assecondare l’algoritmo e assecondare i desideri del crawler, piuttosto che quelli dell’utente.

Alla luce di questa osservazione, non ci si può mostrare certamente stupiti dal peggioramento dei risultati delle ricerche.

Tuttavia, sebbene questo sia un problema che qualsiasi motore di ricerca si troverebbe a dovere affrontare, da Google ci si aspetterebbe un algoritmo più raffinato e meno facilmente manipolabile. Ci si aspetterebbe, insomma, una maggiore qualità, da una parte, e una minore uniformità dei contenuti premiati come risposte più pertinenti e più utili rispetto a determinate domande, dall’altra.

Capita, invece, sempre più frequentemente, che le ricerche svolte all’interno di Google in merito a determinati argomenti restituiscano come risultato una serie di contenuti che offrono varie rielaborazioni, ampiamente sovrapponibili, di una medesima informazione. Inoltre, cosa ancora peggiore, a essere favoriti nelle ricerche sono contenuti di scarsa qualità, a volte scritti con l’unico obiettivo di generare traffico e, di conseguenza, profitti attraverso la pubblicità, la sottoscrizione di servizi o la vendita di prodotti o le affiliazioni.

Ad ogni buon conto, una nicchia di utenti hanno sviluppato una crescente consapevolezza degli attuali limiti di Google come motore di ricerca e questo sta condizionando anche le ricerche stesse. Come? Le persone continuano a usare Google, ma lo fanno sempre più spesso come scorciatoia per raggiungere determinate pagine su siti conosciuti e ritenuti affidabili, evitando i siti che tramite l’ottimizzazione SEO arrivano in cima ai risultati di ricerca e che spesso, ma non sempre, cercano sempre di venderti qualcosa.

Alla luce di ciò, molte domande degli utenti non sono più formulate utilizzando soltanto le parole oggetto della ricerca, ma anche il nome del sito, del social o dell’aggregatore di contenuti di volta in volta ritenuto più utile in merito alla domanda posta.

Inoltre, molte persone trovano spesso più utile effettuare le proprie ricerche direttamente su YouTube, TikTok o Instagram, invece che perdersi nei meandri di Google e fare lo slalom tra decine di annunci pubblicati e contenuti disutili.

A questa tendenza dovremmo porre un argine. E dico “dovremmo” perché siamo noi addetti ai lavori ad avere intossicato il sistema e ad avere sacrificato la qualità dei contenuti sull’altare del profitto, facendo gli interessi delle aziende e curandoci spesso ben poco dei bisogni degli utenti.

Io, personalmente e nel mio piccolo, ho deciso di non muovermi più in questa direzione, anche con i miei progetti personali, spin-off della mia attività principale.

Abbiamo, a mio avviso, il dovere etico e morale di rendere il Web un posto migliore e creare contenuti di qualità, che forse non leggerà nessuno, finché Google resterà quello che è adesso, ma che avranno il merito di dire la cosa giusta (la più vera).

Allora, non si dovrebbe parlare più di SEO, Search Engines Optimization, ma di USIEO, User Search Intent and Experience Optimization.

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